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Il progetto













L'installazione

[ foto di Paolo Volpi, Lucio Maria Morra e Astrid Fremin ]

















































































































La mostra di Kazuko Hiraoka



































La presentazione

Questo giardino zen non è un giardino zen... Perlomeno non nel senso di un giardino zen giapponese classico tradizionale. È piuttosto un'opera d'arte occidentale, un'installazione che si ispira alla tradizione dei giardini zen giapponesi, che la reinterpreta.

Ho realizzato questo progetto assieme ad Astrid Fremin, scultrice francese, con cui collaboro da alcuni anni per la produzione di opere che esulano dalla mia pittura e dalla sua scultura; mi riferisco alle action painting performance, alla land art e, come in questo caso, alle installazioni. Anche lei pratica la meditazione zen, il che costituisce un importante presupposto condiviso.

Vorrei innanzi tutto ringraziare Silvana per la lungimirante opportunità creativa che ci ha offerto, e Kazuko per la generosa disponibilità nel concederci uno spazio all'interno della sua mostra.
L'intuizione di Silvana sta nell'aver individuato l'aspetto complementare che accomuna Kazuko e me: siamo due artisti "contaminati" dall'incontro oriente-occidente. Kazuko, orientale, ha trovato in occidente uno spazio aperto di espressione creativa più libera rispetto a certi canoni consolidati nella cultura giapponese. Io, artista visivo e monaco zen occidentale, ho ritrovato in oriente quella profondità di contenuti - potrei dire "spirituali" - che in occidente, tra arte concettuale e arte commerciale, traballa da decenni.

Questa storia comunque nasce perché Silvana ha pensato che un monaco zen non può che essere esperto di giardini zen... Non è proprio così... Però un'intuizione giusta l'ha avuta: un monaco zen, anche se occidentale, è familiare allo spirito originario che impregna tutta l'arte giapponese degli ultimi 7/8 secoli, influenzata proprio dallo Zen. Non mi riferisco solo ai giardini zen, ma alla calligrafia (shodo), alle arti marziali, alla cerimonia del tè, all'ikebana (la disposizione dei fiori), al teatro no, alla musica del flauto shakuhachi, ai bonsai, alla poesia haiku, alla ceramica raku, ecc.
Pur non essendo un esperto dell'antica e raffinata arte dei giardini zen, ho ritenuto di poterne garantire i principi estetici, che in giapponese vengono sintetizzati col termine wabi-sabi: la bellezza è sobria, essenziale, introspettiva, malinconica, celebra il vuoto, suggerisce più che narrare (come il dito che indica la luna), evita ogni esplicita simmetria, ecc.

Ma torniamo a quest'opera, che abbiamo intitolato GIARDINO ZEN 1.0.

Innanzitutto abbiamo cercato dunque di rispettare i principi del giardino zen tradizionale, il "giardino secco", il karesansui (kare vuol dire modesto, asciutto, e sansui, letteralmente montagne-acqua, sta per natura):
1) niente acqua, solo sabbia o ghiaia e pietre o rocce; tollerato - anzi apprezzato - il muschio;
2) il flusso della rastrellatura evoca l'acqua assente, le sue onde;
3) gli unici complementi d'arredo ammessi devono paradossalmente richiamare la presenza dell'acqua, come il ponte;
4) la disposizione delle pietre è rigorosa; abbiamo optato per quella basica: 3 pietre; una alta e appuntita (detta taido), retrostante, è una montagna o un albero, è associata all'elemento aria; la seconda (detta shigyo) è arcuata, laterale, più bassa e più mossa, è associata al fuoco; la terza (detta shintai) è piatta e orizzontale e rappresenta ancora l'acqua.

D'altro canto, in questa interpretazione occidentale ci siamo presi alcune libertà:
1) innanzitutto l'installazione è interna invece che esterna per adattarla alla modalità fruitiva estemporanea della galleria;
2) di conseguenza è contenuta in cassone ligneo piuttosto che integrata ad uno spazio naturale;
3) infine, rispetto agli standard tradizionali, la dimensione è piuttosto ridotta e la forma molto allungata (4 m x 40 cm) per adattarla al contesto espositivo.

Riguardo al concetto, in quanto monaco zen, ho tirato l'acqua al mio mulino. Il concetto è spudoratamente buddhista. Le 3 pietre sono i 3 Tesori: il Buddha (una montagna), il Dharma (il suo insegnamento di fuoco) e il Sangha (la comunità dei praticanti, orizzontale come l'acqua). La rastrellatura sinusoidale è la Via. I 6 solchi sono i 6 livelli dell'esistenza, i 6 stati di coscienza (demoniaco, infernale, animale, umano, superumano e divino). Secondo me la Via si estingue di fronte ai Tre Tesori, secondo Astrid scaturisce dai Tre Tesori... L'area spianata dietro alle pietre evoca la vacuità, ku, al di là del Buddha stesso. Il giardino zen è un giardino "interiore". Nella sua asciutta essenzialità apre uno spiraglio estetico e contemplativo verso la dimensione della vacuità, che eterna dimora dietro alle forme visibili. Il ponte significa la non separazione (fu-ni, non due) tra le due sponde, tra relativo e assoluto, ma anche tra oriente e occidente.

Vorrei concludere con una riflessione di Roland Barthes nel suo testo L'impero dei segni, dedicato proprio all'estetica giapponese, in cui riferendosi ai giardini zen, ai karesansui, dice:

Nessun fiore, nessuna orma.
Dov’è l’uomo?
Nel trasporto delle rocce,
nella traccia del rastrello
e nel lavoro della scrittura.



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giardino zen 1.0

[ 01-09-2018 ]
Il Fondaco
BRA (Italia)

installazione con Astrid Fremin
per la mostra di Kazuko Hiraoka
LA MEMORIA DEI SEGNI